IL BACIO DI UNA MORTA

tratto dall’omonimo romanzo di Carolina Invernizio
drammaturgia di Antonella Caruzzi
musiche di Giuseppe Verdi, Amilcare Ponchielli, Giacomo Puccini e
altri
con Paola Roman (voce recitante) e Oliviero Pari (canto e
pianoforte)
immagini di Francesco Tullio Altan
regia di Alfonso Cipolla
coproduzione CTA Gorizia / Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare –
Grugliasco

sabato 29 agosto, Gorizia, Kulturni Center Bratuz, ore 21.00

(consigliato ad un pubblico adulto)

È un divertissement tra il letterario e il musicale questo Bacio di
una morta, tratto dal celebre romanzo di Carolina Invernizio. È un
fitto, scanzonato gioco di rimandi, di allusioni, di echi, dove il
feuilleton si rispecchia nel melodramma per ritrovare intrecci,
passioni, personaggi, con i loro caratteri portati a quell’eccesso
al limite dell’inverosimile che un tempo era scandalo e che oggi
forse è solo sorriso.
Amori travolgenti, gelosie, tormenti, asti, rovelli, delitti,
efferatezze, ma anche vendetta, perdono, provvidenza, giustizia e
riconciliazione: ecco gli ingredienti dell’infausta, ma infine
felicissima storia della contessa Clara Rambaldi (angelico custode
dell’amore coniugale) del conte Guido suo marito (il fedifrago), di
Alfonso il di lei fratello (il figlio della colpa); e di Nara,
misteriosa ammaliatrice, nefanda ballerina giavanese, incarnazione
del disordine e del male.
L’improbabile, nonostante i colpi di scena, correre verso lo
scontato, ma il feuilleton, così come l’opera lirica, nella sua
dichiarata esasperazione sa essere metafora, lente d’ingrandimento
per mettere a nudo impietosamente i nervi sensibili di quella
tutt’altro che lontana società, con le sue contraddizioni,
ambiguità e soprattutto apparenze. È davvero ingenuamente angelica
la contessa Clara Rambaldi, specchio d’ogni virtù muliebre oppure
sa trasformarsi in una soggiogatrice dominante pur di difendere il
decoro della propria famiglia? Chi è più tigre? Clara o Nara? Alla
fin fine sono solo poche lettere dell’alfabeto a distinguerle…
L’umorismo del tratto inconfondibile di Altan prende per mano e
conduce in quel mondo da letture proibite ancillari, ne dischiude le
porte e l’anima. È attraverso quel varco che Paola Roman si
insinua, con pudore divertito, per alludere agli aneliti di quei
vacui personaggi, ma sempre in dialogo con Oliviero Pari, che al
pianoforte dà voce ad arie d’opera, mai di commento, ma di supporto
al dipanare del racconto.

Un gioco, un divertimento, ma forse neanche poi tanto…

CAROLINA INVERNIZIO
“Un’onesta gallina della letteratura popolare”.
Questa è la celebre definizione data da Antonio Gramsci a Carolina Maria Margarita
Invernizio, nata a Voghera nel 1851 (e non nel 1858 come sosteneva lei con un pizzico di
civetteria e come fu a lungo tramandato) e morta a Cuneo nel 1916.
Figlia di un funzionario delle imposte, visse a lungo a Firenze dove studiò da maestra
prima di venir espulsa dalla scuola per aver pubblicato sul giornale scolastico un racconto
“di perdizione”, e sposò Marcello Quinterno, un ufficiale dei bersaglieri assegnato a
dirigere il panificio militare di Torino. Qui Carolina Invernizio trascorse praticamente tutto il
resto della sua vita, tenendo un salotto che riceveva il lunedì. Ebbe un’unica figlia dal
nome un po’ scontato di Marcella:
Pur dividendosi equamente tra i doveri familiari e mondani (pare che avesse una gran
passione per parrucche, cappelli e piume di struzzo), trovava il tempo per scrivere:
racconti e romanzi (non se ne sa il numero esatto, ma pare siano circa 130) intrisi d’amore
e di sangue, di delitti e di follia, di passioni travolgenti e di tradimenti, di morti apparenti e
di raccapriccianti vendette.
Ne scriveva anche due alla volta, spesso con l’aiuto della sorella Vittorina, che teneva il
conto dei personaggi e dei morti perché non ci fossero incongruenze nella trama. Storie
raccontate con una tal enfasi e una tal esuberanza narrativa (“Io prendo così viva parte
alla vita dei miei personaggi, che mi commuovo, piango con loro, mi sembra di assistere
realmente alle scene che descrivo e sono costretta talvolta a sospendere per un istante il
mio lavoro, tanta è la sofferenza che ne provo e che si ripercuote nel mio cervello e nel
mio cuore…”) da sfociare spesso, almeno agli occhi di un lettore smaliziato, in
un’irresistibile quanto involontaria comicità.
Perfettamente consapevole del suo pubblico (“Tu scrivi per la crème, io per quello che
rimane” – disse una volta a Matilde Serao), scrisse per le madri, per le figlie e per le spose,
ma fu letta (di nascosto) anche dai mariti. E forse nessuno come lei riuscì a rappresentare
(ma sempre con quotidiano e diligente buonsenso) i sogni inespressi, le paure, le
ossessioni inconfessate, le esotiche e scontate “pruderie” della piccola borghesia di allora.
Perfettamente aderente ai valori della società del suo tempo di cui le sue eroine si fanno
custodi (capaci spesso di ogni sorta di menzogna pur di salvaguardare “il santuario della
casa e della famiglia”), il suo successo fu enorme.

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